24 ottobre 2005

Le impronte della Solitudine

La Solitudine calza stivali di gomma grigi e bagnati.
Entra in casa senza bussare. Lascia qualche impronta sul pavimento.
Ma sono solo ombre umide che asciugano alla svelta.
E' pigra. Si siede sul divano. Vorrebbe fumare ma non le piace il fumo.
Si versa un whisky e guarda la tv. Cambia continuamente canale.
Non ha sonno. Un po' di freddo, forse. Ma non ha nemmeno voglia di accendere i caloriferi.
Batte i denti in silenzio e riempie un altro bicchiere.
Ad un certo punto, per noia o per stanchezza, si infila nel letto.
Non dice nemmeno buonanotte. Non conosce nemmeno una preghiera.
Appena tento di accarezzarla si volta dall'altra parte.
Solo i numeri della sveglia digitale. Ma le ore sono pupille di Godot.

21 ottobre 2005

La musica che non esiste

Gente
Perduta in un sacco di juta
Aiutati che il ciel t'aiuta
Ho una tuta d'astronauta
e pensieri da moonlight
Ma come fai a perderti dietro a una strobo?
Qui c'è un bar per whisky e contrabbasso
un baro con l'asso nella manica
e la bara dove dracula poltrisce di giorno
Vuoi sapere perché ci torno?
Non so
sarà la musica che non esiste
il racconto triste dell'uomo pipistrello
o tutto quello che gli angeli sottintendono
quando si cuciono le ali
bestemmiano
non si arrendono.

18 ottobre 2005

Niente cambierà mai o cambia tutto troppo velocemente?

Niente cambierà mai o cambia tutto troppo velocemente? Può essere una questione di punti di vista. Il cambiamento ha a che fare col tempo, ed il tempo, si sa, è relativo. In realtà il problema è molto meno superficiale di quello che sembri. Credere in un'evoluzione delle cose, o nella staticità del tutto, è indice delle due visioni fondamentali della vita. Nella filosofia antica il filosofo della staticità, del "Nulla cambia", dell'essere puro e in un certo senso statico ,è Parmenide di Elea. Il rappresentante filosofico del "Tutto scorre" risponde invece al nome di Eraclito.

Il primo sosteneva che, nonostante le apparenze di mutabilità, il vero essere è fermo ed immobile. Un suo seguace e compaesano, Zenone, inventò il famoso esempio di Achille e la tartaruga: date a una tartaruga un metro di vantaggio rispetto ad Achille, comandate lo start ed ecco che… il Pelide non raggiungerà mai il lento animaletto, perché per raggiungerlo dovrebbe percorrere metà della distanza, poi un'altra metà, poi metà della metà… e così via. Si potrebbe facilmente obbiettare che la realtà è un'altra cosa. Anche uno zoppo raggiungerebbe in pochi passi la tartaruga. Ma Parmenide dice che solo pochi vedono la vera realtà, gli altri sono solo "gente dalla doppia testa", che non sa distinguere il non essere dall'essere.

Da parte sua Eraclito dice invece che tutto scorre. Il principio delle cose è il divenire. Non ci si tuffa mai due volte nello stesso fiume. Chi non si rende conto dell'eterno mutare delle cose, per Eraclito è un "dormiente". I filosofi invece sono svegli e si rendono conto del meccanismo che muove la realtà mutevole.

E io? Da che parte sto? Purtroppo quasi sempre sto tra le rughe della faccia dura e severa di Eraclito. Troppe cose mi girano intorno, troppe fate mutano in streghe, troppe mani carezzano e poi graffiano, troppi occhi brillano e poi piangono. In fisica la chiamano entropia: il disordine dell'universo è in continuo aumento. Non c'è pausa.
D'altra parte il mio lato parmenideo non è mai del tutto sopito: il desiderare una sospensione, un'illuminazione, un attimo di pace, l'estasi-silenzio in cui guardare con distacco il mondo e vederlo girare. Forse dovrei trasferirmi sulla luna, tra il senno di Orlando e l'impronta di Armstrong. Solo da un punto statico si può gustare il divenire. Forse dal lassù ne capirei il significato. Forse lassù troverei anche qualche discepolo di Eraclito che mi bollerebbe come dormiente: niente di male, gli russerei in faccia. Ma so già che dopo qualche istante, un demone dispettoso mi ricaccerebbe giù, nel girone del carnevale, dove tutto danza, dove i costumi cambiano, i cuori si infrangono e si rigenerano, le tre Parche filano, e i filosofi dibattono.

Perché niente cambierà in tutto questo mutare troppo veloce.

17 ottobre 2005

Una zanzara fastidiosa: chi sei?

Chi siamo noi? O meglio, chi sei tu che leggi queste righe? Tu che sei arrivato per caso o magari perché ti hanno consigliato l'indirizzo? Hai un nome, un cognome e una carta di identità con tanto di foto nel portafoglio. Si, ma chi sei? Un miscuglio di acqua e di nervi? O un'anima imprigionata in un corpo? Una reincarnazione di un unicorno? Un sogno di Shakespeare? Una visione che gli altri hanno di te? La verità è che non lo sai nemmeno tu. Potresti rispondere affermativamente ad ognuna di queste domande, e nessuno potrebbe contraddirti fino in fondo. Allora cosa sei? Pensaci bene. Tu sei quello che deve rispondere. Di più, tu sei quella cosa, quella definizione che userai come risposta. Tale è la forza della rappresentazione che uno fa di sé, e dalla rappresentazione non si sfugge. Sei dentro il circolo della rappresentazione, sei il personaggio sul proscenio. Che sia un monologo, un dialogo o grand guignol, tu sei il regista ed il protagonista. Niente ti può salvare, se non te stesso. Qualsiasi tipo di marionetta tu sia, i fili ce li hai tu. Certo, è inevitabile che la tua libertà trovi dei limiti, che i tuoi fili vadano ad ingarbugliarsi con quelli degli altri, anche perché il palcoscenico è piccolo, molto più piccolo di quello che si potrebbe pensare.

Forse non l'hai ancora capito. Forse preferisci non capirlo, saltare la domanda e fare qualcosa di meglio. Già, fare. Il verbo che trionfa. Al di là di ogni poesia, termine che in greco significa fare, creare. Ma fare come è inteso dal senso comune, è pura azione, turbinio e stordimento. Continuiamo a fare cose nuove, a inseguire il cambiamento, a correre per non vedere un panorama che sta fermo. Così evitiamo la domanda più fastidiosa del mondo, la zanzara malarica: chi sei? Guardati allo specchio, senza imbellettarti, o la sera, quando la cipria cade. Non sei ancora tu, ma inizia da lì. Poi cerca in fondo agli occhi, tra i pori della pelle liscia o al limitare della prima ruga. Chi sei? Non ho detto come sei, che l'umore cambia di attimo in attimo. Ti ho chiesto chi sei, ti ho domandato circa lo zoccolo duro, non ti ho interrogato sulle parti molli. Hai ancora voglia di fuggire la risposta, vero? Anzi, la domanda ti irrita. Ma tu guarda dove sei finito…

Non importa. Vivi come ti pare. Qui non ci sono consigli e nemmeno fenomenologie kantiane. Non c'è nemmeno un Socrate che pone domande scomode, o per lo meno non insiste più di tanto. Tanto arriverà il momento in cui sarai tu, che persa ogni cosa, sotto un cielo grigio o appeso ad un petalo rosso sangue, ti porrai la regina di tutte le domande: chi sono io? E se tenterai di rispondere sarai qualcuno, altrimenti ti perderai, nell'abisso dei dormienti, degli uomini geranio che stanno lì a scacciare le zanzare sul davanzale della vita.

11 ottobre 2005

L'arciere di Lucrezio

Un sms di una mia amica, qualche giorno fa. "Tu credi che esista per sempre?". Bella domanda. In realtà non so se esista, ma non posso fare a meno di crederci. Sono un ammalato del per sempre. E' grave, incurabile. In un mondo dove la filosofia del consumo ha il sopravvento anche sui sentimenti è difficile credere che per sempre sia applicabile alla realtà. Forse per sempre è un pensiero da sognatori, gente che vive tra le nuvole. Ed io tra le nuvole sto, sarà per questo che ho sempre un po' di tosse.

Non che chi non ci crede sia peggio di me, anzi, gode di molti vantaggi nella vita pratica: si accontenta delle piccole cose, sa cambiare via velocemente, riconosce che la perfezione non esiste. Alla lunga chi non pensa per sempre vince, se non altro perché ha il supporto della maggioranza, di quella che chiamano società. Prendi, usa e via. E' nell'istinto dell'uomo mordere la mela e gettare il torsolo. Ma per sempre non è solo istinto. E' cuore e ragione. Una passione razionale, un'idea che è incisa nella mente di pochi, che negli altri resta solo inconscia. Forse una maledizione. Chi ha la coscienza del per sempre è più portato all'infelicità: sa che le sue aspirazioni resteranno irrealizzate, sa che la sua meta sarà sempre un passo più in là. Eppure, sa di non potere rinunciare, sa che bisogna continuare a lottare per costruire quella torre di Babele, che prima o poi gli farà raggiungere il cielo. Poco importa che non lo raggiungerà mai: l'importante non è il bersaglio, l'importante è il percorso.

Nel "De rerum natura", Lucrezio per spiegare l'idea di infinito dice che c'è un arciere che,
postosi ai confini dei mondo, scaglia una freccia: il dardo prosegue la corsa verso l'infinito. Potrà sbattere contro qualche roccia, contro qualche montagna. Ma a quel punto l'arciere potrà sempre scagliare una nuova freccia verso l'infinito. E' così che la freccia corre. Ma soprattutto, e questo Lucrezio non lo dice, è così che l'arciere agisce: quando la freccia si ferma, magari si rompe, prende una nuova freccia, carica l'arco e tira. Per sempre. E l'infinito non è tanto quello che non si raggiunge, ma la ripetizione del gesto, il rito che ogni giorno l'arciere compie per amore del tiro con l'arco. Cosa importa il resto? Cosa importa se il tiro non ha bersaglio definito? L'arciere cerca di mantenere sempre teso l'arco, non si lascia andare. Può darsi che il tempo tenda ad allentare la corda, ma un buon arciere cambia freccia, non l'arco.

Così chi pensa per sempre, ed io non riesco a non pensarci. Quando scrivo, quando respiro, quando sto solo, quando sto con una persona, quello è solo un momento, ma è un momento del per sempre, e solo per questo ha importanza. Quando nella realtà il momento finisce, quando poso la penna, quando esco di casa, quando quella persona se ne va, allora per sempre si fa più prepotente: avrei potuto scrivere qualcosa di meglio, qualcosa che rimanesse per sempre; avrei potuto stare un po' più da solo a riflettere invece di perdermi nel traffico; avrei potuto... il per sempre si scontra col condizionale. Per questo si ha paura del per sempre. Felicità rara, amaro in bocca però con qualche sorriso. Bisogna avere il coraggio di insistere, insistere e attendere. Due verbi sempre più sconosciuti. Insistere significa stare dentro, quasi il contrario di divertirsi, che significa uscire dal centro. Attendere significa tendere verso (tendere... l'arco). Servono pazienza ed esercizio. Serve lentezza. E se l'attesa non pagasse? E se alla fine ci fosse solo uno sbaglio? Allora occorre anche coraggio.

Ecco le doti dell'arciere: insistenza, attesa e coraggio. Insistenza nell'esercizio, attesa del momento giusto (l'arciere non è contro il cogli l'attimo, ma cerca l'attimo giusto), coraggio di sbagliare o di rischiare un tiro verso il niente. Ora, tutto questo va contro la logica comune. Ma non importa. L'arciere vive fuori dal tempo, in una dimensione infinita. Finché il tempo non lo fregherà. Ma solo esattamente nel momento in cui il tempo avrà cessato finalmente di esistere.
Per sempre.